Onorevoli Colleghi! - La crescente competitività dei mercati pone le piccole imprese di fronte al problema di ricercare forme alternative di risorse finanziarie e umane che soddisfino la duplice esigenza dell'efficienza e della economicità.
Tale problematica risulta particolarmente pressante per le piccole imprese, cosiddette «microimprese», quelle imprese artigiane e agricole, cioè, che hanno un numero di dipendenti non superiore a dieci. Una possibile soluzione per consentire alle imprese suddette di mantenere un certo standard di competitività, se non di espandere la propria attività produttiva, può essere rappresentata dal contratto di associazione in partecipazione. Si tratta di una forma contrattuale definita dall'articolo 2549 del codice civile secondo la quale «l'associante attribuisce all'associato una partecipazione agli utili della sua impresa o di uno o più affari verso il corrispettivo di un determinato apporto».
La caratteristica principale di tale forma contrattuale è che l'apporto di capitale o di lavoro, fornito dall'associato, non comporta ingerenza nella gestione dell'impresa. L'associato non diventerà mai «imprenditore», pur partecipando alla ripartizione degli utili. Secondo la sentenza della Corte di cassazione n. 6466 del 2 luglio 1998, tale tipo di contratto configura sostanzialmente una collaborazione economica con l'associante, funzionale al raggiungimento di un obiettivo comune.
Ai nostri fini quello che è opportuno rilevare è che questo tipo di contratto può risultare utile sia nel caso in cui i limiti a una espansione dell'impresa siano costituiti da una carenza di risorse finanziarie, fornendo una forma di finanziamento aggiuntiva,